di Marilia Argentino
Riconosciuto Prodotto Agroalimentare Tipico dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, il Butirro, detto anche Burrino, deriva da un’antichissima tradizione.
Impropriamente paragonato ad un caciocavallo in miniatura, questo piccolo formaggio assolse in passato la funzione di conservare il burro, che veniva poi utilizzato come merce di scambio, e di proteggerlo dal caldo durante il periodo della transumanza.
In un certo senso, fu il precursore delle odierne conservazioni sottovuoto.
Rappresenta, pertanto, un alimento che esprime un forte legame con la tradizione e con le usanze dei nostri antenati.
Tipico dell’Altopiano Silano e della zona del Pollino, oggi viene prodotto in più aree del Mezzogiorno.
Fino a tempi recenti, il latte d’elezione impiegato per la produzione del Butirro era quello delle vacche “annicchiariche” (che hanno partorito da un anno) di razza Podolica, originarie delle fertili “terre nere” della Podolia, regione occidentale dell’Ucraina, e successivamente allevate come razza pura nell’Italia meridionale. Attualmente, invece, si predilige il latte vaccino della Pezzata Rossa Italiana e della Bruna Alpina, razze maggiormente disponibili e tra le più allevate a livello nazionale.
Il Butirro è un formaggio altamente energetico, con un apporto di 37,80 g di grassi e di 24,70 g di proteine per 100 g di prodotto.
Presenta la forma di una pera (ed è curioso notare l’assonanza con la siciliana Pera Butirra P.A.T., cultivar tipica del territorio etneo), con la testina dalla particolare configurazione a tricorno. Ha un diametro inferiore ai 10 cm ed una lunghezza che non supera i 18 cm, mentre il peso oscilla tra i 200 e i 300 grammi.
Il periodo di produzione va da marzo a settembre, ossia nelle stagioni calde, durante le quali le lattifere sono al pascolo.
E’ un formaggio a pasta filata, che appare esternamente lucido e di un colore giallo paglierino, mostrando tonalità via via più chiare verso l’interno, fino a divenire untuoso nel punto di contatto con il cremoso cuore di burro, più o meno giallo a seconda del tempo di maturazione.
C’è chi preferisce spalmare il solo burro su fette di pane tostato e chi lo usa per condire i primi, ma la maniera migliore per godere delle proprietà organolettiche che rendono il Butirro un formaggio unico nel panorama lattiero-caseario italiano consiste nel tagliarlo a fette e servirlo come antipasto.
Difficile descrivere a parole lo straordinario contrasto che si percepisce in bocca tra il gusto deciso della pasta filata esterna e l’avvolgente cremosità del burro racchiuso al suo interno. E’ un mix di sapori e sensazioni di rara bontà e dal perfetto equilibrio.
Merito della qualità delle materie prime, della dedizione degli allevatori, della meticolosità dei produttori e della precisione con cui vengono realizzate le tecniche di lavorazione del prodotto.
Al latte appena munto viene aggiunto il caglio in pasta di vitello o di capretto e dopo viene fatto coagulare alla temperatura di 36°-38°. Allorché la massa raggiunge la consistenza desiderata, la si spezza finché i grumi acquistano le dimensioni di un chicco di riso.
Dopodiché, la si appoggia su tavole di legno ricoperte da panni di lino e la si lascia riposare per un periodo variabile, strettamente connesso alla temperatura dell’ambiente, che comunque non supera i tre giorni.
Al raggiungimento del giusto grado di acidità si procede con la filatura manuale, tagliando la cagliata a fette e immergendola in acqua quasi bollente. A quel punto si incorpora la sfera di burro e si modella il prodotto, che viene in seguito immerso in acqua freddissima per non danneggiare il cuore burroso estremamente sensibile al calore.
Infine, i butirri sono legati a coppie e posti a cavallo di pertiche in legno dove si lasceranno stagionare per un periodo compreso tra i due e i sette giorni, per poi essere consumati freschi.
Ed è così che nasce questa eccellenza della gastronomia calabrese, forse ancora poco conosciuta e non pienamente valorizzata. Un piccolo gioiello da far scoprire e apprezzare.